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Berardinelli contro Severino.
La deriva dei luoghi comuni
di Giuseppe Cerbino

3 settembre 2016


Per chi non lo conosce, entrare nelle ricche articolazioni di un pensiero filosofico singolare come quello di Emanuele Severino, non è assolutamente compito semplice tanto più se si pensa che vi è poca letteratura al riguardo; eppure non si può negare un generale riconoscimento dell’importanza del suo lavoro. Massimo Cacciari, teoreticamente distante da lui, definisce sorprendentemente la filosofia del ’900 un “dramma a due protagonisti”: da un lato Martin Heidegger e dall’altro proprio Emanuele Severino. Dico “sorprendentemente” perché la filosofia del ’900 sembra invece arroccata nel primato dell’ermeneutica, del pensiero debole e della caduta di ogni assoluto. Ciò che si deve riconoscere è che Emanuele Severino non è solo il rappresentante più significativo di un controcanto alla filosofia heideggeriana (ancorché, secondo alcuni, dipendente da essa) ma anche il pensatore che arriva a ragionare su qualcosa di singolare sebbene non totalmente impensato, vale a dire l’eternità di ogni essente, la cui verità, rimanendo inascoltata, ha generato l’intero Occidente e l’occidentalizzazione del mondo. Il merito di Severino è proprio quello di suggerire come dietro questa “sordità” si nasconda una follia su cui va portata la riflessione nel nostro tempo (tanto più urgente quanto più buio si fa il presente storico), non tanto sull’umanità quanto sulla verità e sulla “sacralità” di ogni cosa. Follia che nasce dalla follia originaria, “ontologica”, che Severino descrive come ciò sulla base della quale l’ente è nulla. Le etiche che si sono sviluppate nel corso di due millenni e mezzo del pensiero occidentale sono radicate in questa “follia”.

Le considerazioni “ficcanti” che Severino ci ha offerto nei suoi libri, nel corso di cinquant’anni di intenso lavoro speculativo, ci aiutano a intercettare una declinazione “formidabile” (o scioccante, nel senso di Benjamin, cioè di un’improvvisa scomparsa dell’incanto) dei diversi aspetti, politici, etici e sociologici, del mondo che abitiamo, isolati come siamo da ciò che Severino chiama il “destino”, ossia, detto in grandi linee, il rifiuto intrinseco in ogni essente in quanto tale ad essere caduco e mortale. Questo significa che non è solo una mancanza di accettazione di connotazione psicologica; le cose, in quanto tali, testimoniano la loro eternità. Non siamo noi a non volere che le cose siano mortali. Questo sarebbe ancora un aspetto della “fede” in senso severiniano, ossia un volere che le cose abbiano un senso. Naturalmente non è possibile richiamare efficacemente in questa sede le parole chiave che puntellano una speculazione complessa, come non è pensabile poter recepire, in una folgorazione immediata, il plesso delle argomentazioni di Severino, quand’anche si possano confutare o smentire. Qui basti dire che il pensiero di Severino consente un accesso alla nostra epoca nel perseguimento del “logo della verità”, attraverso una rigorosa “fondazione” (dimostrazione).

Questo è il motivo per cui trovo disdicevoli certe invettive da parte di esponenti della cultura che, trovando incomprensibile il discorso di Severino, si limitano a cassarlo come ridondante e contorto; il che, ammessa la plausibilità della critica, non consente comunque di squalificare un pensiero sulla base di semplici battute, laddove sarebbe invece necessario introdursi nella complessità del suo discorso. Bene, mi sono imbattuto in un articolo del critico letterario Alfonso Berardinelli [1] sul filosofo bresciano, che mi ha irritato per i toni aggressivi e denigratori.

Vorrei svolgere alcune considerazioni partendo dall’articolo di Berardinelli. In un’epoca di abdicazione dal rigore, ci troviamo oggi in uno stato quasi ipnotico, in cui i luoghi comuni dettano le regole dell’intelletto. Le giunture intellettive di molti uomini di cultura si contraggono entro frasi ad effetto, finalizzate a distruggere più che a edificare un senso. Un’epoca di improvvisati, in cui il presentatore televisivo scrive romanzi e il critico letterario parla di filosofia, magari in maniera approssimativa... si fa portatrice di un deformato concetto di libera caciara gabellato per libertà di espressione e di pensiero che, come dice Carlo Sini, ha finito con il distruggere la potenza dei saperi. L’attacco di Berardinelli riflette molto bene questo stato di cose. Esso non porta se non a confermare quel radicamento nella doxa denunciato da Severino e che risucchia persino l’avamposto della critica. Insomma, detto più semplicemente, parrebbe non valere più la pena studiare, analizzare, perché l’importante è coltivare quel poco di nozioni, sufficienti a liquidare l’altrui fama ben più che le altrui argomentazioni.

L’articolo di Berardinelli rappresenta quell’onda corta di un attacco più generalizzato nei confronti della filosofia. Chi si occupa di filosofia sa ormai da tempo che l’accusa principale che le viene mossa è quella di non occuparsi di problemi concreti, di essere eccessivamente astratta e nebulosa. Un’accusa tanto vera quanto vuota perché ignara del fatto che la filosofia è l’origine di tutte quelle questioni “concrete” di cui scienza, politica, sociologia, tecnica, teologia, ecc. si occupano. Questo dice Severino. E questa ignoranza, necessariamente ignara di se stessa, sembra essere presente proprio in Berardinelli che, fraintendendo il significato della filosofia, non si rende conto di esserne dentro, figlio di quel discorso che cerca di confutare.

Affrontiamo allora questa questione. Tutti i problemi che noi chiamiamo “concreti” non sono realtà a se stanti che dovremmo limitarci a registrare e a constatare. A parere di Severino è riduttivo ritenere la filosofia una disciplina tra le altre, che invece è “sfondo” essenziale di tutti gli accadimenti umani (“costanti persintattiche” le chiama Severino ne La struttura originaria). In questi accadimenti generati dalla filosofia è incluso anche l’atteggiamento critico di coloro che la denigrano poiché non si accorgono che cercano di occuparsi dell’impossibile: ossia smottare lo stesso terreno sul quale camminano. Che lo si voglia o no, ognuno di noi abita nella filosofia, intesa come ciò che guida e nutre ogni energia culturale, sociale, politica, scientifica e persino religiosa; in altri termini, abita nella pretesa di dire una certa verità, inclusa quella che pretende di proclamare l’inutilità della filosofia stessa. Invece, chi davvero ritiene che la filosofia non serva, semplicemente non se ne interessa, come Diogene di Sinope che, davanti a Zenone di Elea, intese “dimostrare” l’esistenza del movimento semplicemente camminando, ma nel contempo non spiega cosa sia il movimento. Questo è senz’altro un atteggiamento più onesto rispetto a quello di coloro i quali vogliono “argomentare” l’inutilità della filosofia o di uno specifico pensiero filosofico. Questi detrattori cadono in contraddizione perché per negare qualcosa, hanno bisogno dello stesso linguaggio della cosa che si cerca di negare, ossia, in questo caso, del linguaggio filosofico, che è il linguaggio dell’argomentazione. In estrema sintesi, la filosofia è stata anche fin troppo utile o, come direbbe lo stesso Severino, ha pensato troppo generando concetti che stanno alla base del comunismo, del cristianesimo, del liberismo e persino del capitalismo. Quindi, quando abbiamo a che fare con essi, abbiamo a che fare inevitabilmente con la filosofia. In ragione di ciò, negarla equivale a usare lo stesso veleno da cui si cerca di depurare il nostro sangue.

Vediamo alcuni passi dell’articolo di Berardinelli. Già nel sommario sono condensati gli aspetti che intendo sottolineare. Lo riporto per intero: “Perseguita [Severino] da quarant’anni i lettori italiani con la favola antica dell’Essere e del Divenire che gli permette di dire tutto non dicendo niente. Perfino di sostenere che lui è migliore di tutti, anche di Leopardi”. La prima parte della frase tradisce già da subito un intento denigratorio piuttosto che analitico, allo scopo di insinuare un pregiudizio in coloro che leggono l’articolo e, soprattutto, in coloro che, leggendolo, non conoscono Severino. Il lettore di filosofia, come è noto, appartiene a quella categoria di lettori che meno di altri si lascia ingannare o perseguitare, in quanto sa di aver scelto un ambito non sempre agevole e piuttosto tortuoso, soprattutto quando si tratta di teoretici puri come Severino. Quindi di quale persecuzione si dovrebbe trattare in questo caso? Berardinelli prosegue colpendo, o meglio, pensando di colpire il cuore della speculazione di questa filosofia: “la favola antica dell’Essere e del Divenire”. Ecco! Qui si può cogliere l’imporsi violento della doxa, il centro nevralgico del pensiero occidentale (Parmenide) ridotto a favola ossia a mito. Chi ha dimestichezza con il pensiero di Severino sa benissimo come parte del suo lavoro sta appunto nel porre una distinzione tra episteme e mito e come la conoscenza scientifica di oggi ripeta il mito. Quanto meno Berardinelli avrebbe dovuto documentare con maggiori dettagli questo aspetto.

In un passo dell’articolo si legge: “Dopo aver distinto nettamente e assolutamente questi due verbi, Severino ha aggiunto, in una cinquantina di libri, che l’essere non è il divenire poiché il divenire non è l’essere”. E poi ancora: “Severino [...] non si sazia mai di giocare sempre la stessa partita a esito garantito, perché in conclusione lui vince sempre, con l’essere che è la sola realtà mentre il divenire è tutto una bugia”. Queste semplificazioni, pur non essendo del tutto campate in aria, non permettono di afferrare i termini del problema posto da Severino: la distinzione tra essere e divenire è propria di Parmenide, da cui Severino parte, per poi prenderne le distanze, a cominciare già dalla sua opera più nota che è “Ritornare a Parmenide” [2], dove l’eleate viene accusato di non essere andato fino in fondo con il discorso dell’eternità dell’essere e di non averlo applicato al piano dei fenomeni. Quindi il primo a tradire la verità dell’essere è stato proprio colui che l’ha formulata poiché, detto a grandi linee, la verità dell’essere (la sua eternità) è la verità dell’essente, di ogni essente e quindi dei fenomeni. Severino, in definitiva, non nega il divenire, nega solo la sua interpretazione in chiave “nichilistica”, ossia il dissolversi e il nascere delle cose. Naturalmente occorrerebbe un supplemento di approfondimento per spiegare a che cosa Severino intende per Divenire, ma qui basti dire che Parmenide, nella lettura di Severino, non porta il suo lucido ragionamento verso i fenomeni che, com’è noto, vengono liquidati come illusione e quindi come non-essere.

Con questi pochi passaggi è stata già, per così dire, asportata un po’ di patina dalla superficie denigratoria di Berardinelli e si è indicata, per sommissimi capi, la dignità di un complesso lavoro speculativo, proprio partendo da questa patina. Il critico letterario va però oltre e gioca tutta la sua lettura su una presunta “superbia” del filosofo. Superbia per altro intravista anche da altri. Io stesso verifico a volte la presenza di una certa albagia in Severino, derivante forse dal suo carattere, dalla sua personalità, il che non ha però nessuna rilevanza filosofica. Ogni filosofo che si rispetti, seguendo una certa argomentazione, deve “pre-tendere” di avere ragione, di essere dalla parte della verità. Ma non è questo il punto da sottolineare: Severino non si ritiene affatto migliore di tutti, e, di certo, non si ritiene meglio di Leopardi. Qui Berardinelli sferra un colpo basso, perché va a colpire quella che a mio avviso è un’analisi magistrale del pensiero leopardiano; pensiero che con Severino (anche se non solo con lui), viene liberato dai gangli eccessivamente letterari a cui siamo stati abituati a relegarlo. Supportati dalla analisi di Severino, Leopardi si presenta come il più importante pensatore del nichilismo europeo. Ma quella del filosofo bresciano non è una critica di valore che vuole esaltare Leopardi per poi ritenerlo superato, ma una critica in senso kantiano: dire tutto ciò che va detto e non può non essere detto intorno a una certa questione ossia, in questo caso, fare una analisi rigorosa delle condizioni di possibilità del pensare il nulla in Leopardi; perché è in queste condizioni di possibilità che si intreccia ciò che è, sulla base della speculazione di Severino, la nervatura del pensiero occidentale.

Già da “Ritornare a Parmenide” egli dice che l’Occidente è un errore necessario e che questa necessità comporta il fatto di abitare in tale errore e, quindi, il non poterlo emendare. Severino attraversa fino in fondo questo errore, cercando di intercettarne gli elementi e la natura, ma non propone alcuna alternativa ad esso. In un passo de La gloria (Adelphi, 2001) dice che l’uomo non deve avere alcun compito filosofico, smentendo addirittura alcune posizioni presenti in libri precedenti, come Destino della necessità (1981). L’eternità di tutti gli essenti non è una teoria filosofica, ma una verità inascoltata e il lavoro di Severino consiste proprio nel tentare di comprendere la portata, per noi, di questo mancato ascolto.


[1] A. Berardinelli, “Contro Severino, l’iperfilosofo”, Il Foglio, 12 ottobre 2015.
[2] E. Severino, “Ritornare a Parmenide” in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982.


BIBLIOGRAFIA MINIMA
E. Severino, “Ritornare a Parmenide” in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982.
E. Severino, “Il sentiero del giorno” in Essenza del nichilismo, cit..
E. Severino, Gli abitatori del tempo, Rizzoli Milano 1981.
N. Cusano, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana, Brescia 2011.



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